“L’altra cosa che ti dà all’occhio è il giro che, verso le tre pomeridiane, dopo un lungo sparo di mortaretti e fra il lieto scampanare di tutte le chiese, si fa per le solite vie la vigilia e il giorno della festa. Vi prende parte grande numero di popolo.
Precedono i tamburini in zimarre di damasco bianco e cappelli, dello stesso colore, a larghe falde e gallonati d’oro; poi gli stendardi maggiori portati, sotto la guida dei provetti, da giovani contadini, borgesi e pastori, che, premurosi di sposarsi, vogliono alle fanciulle, le quali ben vestite e pettinate, son tutte occhi alle terrazze, ai balconi, alle finestre o colle mamme loro sugli usci delle case e agli sbocchi delle vie, mostrarsi abili a portarli diritti come le candele, e capaci di sostenerli, ancorché alti e pesanti, sulla palma della mano, sul pugno chiuso, sulla spalla, sulla fronte, sui denti. Indi gli stendardi minori, la banda musicale, l’orchestra, i cantori e spesso cori di giovanetti in forma di angioli che qua e là cantano l’inno di occasione; in fine la bara cui segue grande frotta di popolo donde il nome di frottula a questa processione.
Nei tempi andati, ora non più, invece di bara ci era il carro tirato da buoi, ed io, piccino, ricordo di averne veduto solo le grosse ruote di legno tutte sciupate.
I più ricchi e divoti proprietari portavano in giro pendenti da una lunga asta le fardi (falde, tessuti bellissimi in seta, rossa, verde, rosata, cerulea, argento od oro), lunghe circa m. 5, larghe cm. 80 e del valore medio di L. 200 ciascuna, che dopo offrivano alla Chiesa Madre, come ancor usa, per ornarsene; e comeché tempi diversi dai nostri, i più savi, lungo le vie, facevan fuochi di gioia con pistole, fucili e carabine”.
Eran le 14 del dì otto dicembre, sacro alla SS. V. Immacolata, e dopo un rumoroso sparo di mortaretti e un’allegra scampanata di tutte le chiese, udii sonare in piazza la musica cittadina. Compresi che cominciava la frottola (processioncina popolare) e mi proposi di vederla passare d’innanzi la mia casa senza punto scomodarmi.
Giravano essi per la via maggiore tutto il paese; a quando a quando, fermatisi, cantavano in musica un inno di occasione, e poi, sempre in ordine, avanti.
La strada, dove io abito, per sorte, corre larga, piana, diritta con uno sfondo ai monti verso occidente per un metri dugento, e mi diedi ad aspettarli ed a guardare da dietro i vetri di un mio balcone.
Stetti: e finalmente, dopo lunga attesa, spuntarono, e primi, come avanguardia, uno sciame di allegri biricchini, che, rincorrendosi, accompagnavano il tradizionale tamburino tutto chiuso in un suo rosso zimarrone di gala; indi due vistosi stendardi, tutti seta e oro, cordini, fiocchi, nastri svolazzanti e campanelli di argento, portati a tratti e a turno, ciascuno da baldi giovini pastori, borghesi, contadini, prossimi a sposarsi; indi la musica in grande uniforme, la bara, il popolino, fuori donne, e il tutto formava un bel quadro a vedere.
Procedevano senza ombra di fretta: e, arrivati a una sessantina di metri da me, secondo l’uso, si fermarono per cantare; il tamburino tacque, i portatori degli stendardi fecero alto innanzi la mia casa, e lì, o per isvago o per attirarsi l’attenzione delle giovinette, tutte linde e pulite, affacciate alle finestre, ai balconi, alle terrazze, o ferme con le mamme sulla soglia di casa o a gli sbocchi delle viuzze, vollero (e il tempo ci era) far prova di forza, di destrezza e di niculibio (equilibrio) nel maneggio degli stendardi.
Compresi e vidi che chi aveva portato fin là uno stendardo alto e a due mani, lo posò a terra; che, curvatosi e afferratolo al pié dell’asta colla sola destra, indi con la sola sinistra, lo sollevo alto così col braccio fermo e disteso, che pareva volesse con l’estrema punta della croce dorata toccare il cielo.
Non contento, li sostenne sui pugni chiusi destro e sinistro, indi sulla palma, dopo, sul dorso di ciascun mano; poscia colla destra e lo posò sull’omero sinistro e con la sinistra sul destro; da ultimo (e fui sorpreso) sui denti, sovra a cui aveva cacciato in fretta un fazzolettino bianco, per non si lordare la bocca, senza omettere, in tutti questi atti, di muoversi pian piano a diritta e a manca, ora con una, ora con le due mani puntate ai fianchi e a gli occhi in alto, come per reggersi e conservare l’equilibrio.
Fatto ciò, fresco e lieto, il cesse ad uno dei compagni, che, ammirati e silenziosi, gli erano stati intorno.
Ero così preso di ammirazione anch’io, che non diedi orecchio alla musica, e quando finito il canto, tutti si mossero e gli stendardieri procedettero innanzi, mi dolsi di non aver mandato un bravo a quel caro giovine che aveva saputo maneggiare come un fuscello e tener sempre diritto come una candela quello stendardo, che, in media, raggiunge l’altezza di metri sette e il peso di chilogrammi trenta.
Non tirava alito di vento, se no, sarebbe stato impossibile riuscire in quelle prove senza pericolo.
La destrezza degli stendardieri è qui, come altrove in Sicilia, famosa e tradizionale.